D’altra parte siamo cresciuti con la convinzione che lavorando duramente per un po' di anni avremmo raggiunto il successo, a quei tempi equivalente all’avanzamento di carriera e ad uno stipendio più alto e con il successo saremmo stati più felici. Naturalmente le aziende e i loro manager per anni hanno fatto di tutto per suffragare questa convinzione e in nome della produttività e del bene comune hanno spinto ogni dipendente a dare il massimo per superare i colleghi (visti come avversari) nella folle corsa verso il vertice. Ed infatti in fase di assunzione la domanda che ci facevano gli HR era: in quale posizione si vede tra 30 anni? E la risposta smart dei più modesti era: “…almeno Direttore Generale!“
Il problema è che ogni volta che raggiungiamo un obiettivo, il cervello sposta la percezione di successo ad un livello più alto. Questa modalità è ben conosciuta dai Direttori Commerciali di tutte le aziende che, una volta raggiunto l’obiettivo di vendite del mese, spostano l’asticella un po' più in alto il mese successivo.
Nel tempo molti baby boomers si sono accorti che lavorare 10-12 ore per 5 giorni a settimana non sempre avrebbe portato al “successo” sperato. E quei pochi che hanno raggiunto posizioni manageriali di alto livello, in molti casi hanno dovuto rivedere il significato personale di successo. Invece di sentirsi più felici come pensavano, hanno cominciato a dormire poco e male, a soffrire di ansia e stress e nei casi peggiori hanno subito la terribile esperienza del burnout. Ma il paradosso più grande è che, a fronte di tutto questo, la produttività non è aumentata, anzi considerando il supporto avuto dell’innovazione tecnologica, nella maggior parte dei casi è addirittura diminuita.
E’ quindi evidente che quello in cui abbiamo creduto e che per tanti anni ha dettato i nostri comportamenti sul posto di lavoro, è un paradigma sbagliato.
Shawn Achor è un professore di Harvard che da anni studia la relazione tra benessere e risultati sia in ambito scolastico che organizzativo. Nel suo libro Big Potential e in varie conferenze (vedi TED Talks: The happy secret to better work) spiega che l’errore più grande è che per anni gli psicologi e gli scienziati si sono concentrati sui problemi delle persone che non erano in grado di raggiungere performance in linea con la media nazionale e ciò ha portato (soprattutto nelle scuole) ad individuare una moltitudine di disturbi mai considerati in precedenza.
Al contrario le ricerche negli ultimi tempi si sono concentrate sul capire cosa accomuna coloro che hanno livelli di performance stabilmente superiori nelle aree con cui ci confrontiamo nella vita: quello intellettuale, sportivo, musicale, creativo, il livello di energia, il senso dell’umorismo e la capacità di resilenza di fronte alle difficoltà.
Le ricerche dimostrano che il livello di felicità non è determinato dal contesto esterno a noi, ma dal modo con cui il nostro cervello interpreta il mondo intorno a noi. Nello specifico in uno stato mentale positivo, le persone sono il 31% più produttive di quelle in uno stato negativo o neutro. Questo vuol dire che se riuscissimo a cambiare i processi cerebrali (troppo spesso focalizzati sulle negatività e il pessimismo) in pensieri positivi, immetteremmo dopamina nel nostro sistema riuscendo a lavorare in maniera più efficace e gratificante e a trasformare le nostre paure in sfide alla nostra portata.
In teoria sembra una formula semplice, ma come si fa a convincere il cervello a diventare più positivo?
Senza dover ricorrere a mental coach o motivatori di vario genere, le ricerche hanno dimostrato che esistono alcune pratiche che se vengono ripetute nel tempo e diventano buone abitudini trasformano le negatività e il pessimismo in pensieri positivi duraturi. Ecco le buone abitudini da cominciare a praticare:
In questo modo, così come avviene per l’allenamento fisico, modelliamo il nostro cervello a pensare positivo allontanando l’ansia e riuscendo ad affrontare la giornata con rinnovata energia.
E la ricerca della felicità legata al successo sul lavoro?
A giudicare dal Workmonitor 2024 di Ramstad chi si affaccia oggi al mondo del lavoro è poco interessato alla carriera. Molto più importanti per i Millennials e la Generazione Z sono lo scopo e il significato del lavoro, gli aspetti valoriali e l’equilibrio con la vita privata.
Ma questo è un argomento che merita un articolo a parte.